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Viviamo in un epoca che esalta il corpo, lo espone e insieme lo mercifica.

Costruiamo lentamente, nei primi anni di vita, la nostra integrità corporea e le diverse scienze ci indicano la stretta interdipendenza di corpo e mente.

 

Cosa attenta a questa continuità?

Cosa ci impedisce di percepire la nostra integrità corporea come sicura, forte, efficace?

 

In questi giorni di grande allarme sociale per il rischio della diffusione del corona virus è come se il corpo sociale stesso stesse vivendo il rischio di vedere fallire la propria integrità.

I mezzi di comunicazione ripetono incessantemente le stesse informazioni, assistiamo alla corsa ad accaparrarsi l'ultima mascherina, lo sguardo riprovevole verso chi starnutisce, persino verso chi ha gli occhi a mandorla.

 

Se una certe dose di ansia relativa alle possibili evoluzioni della situazione sanitaria è tollerabile, assistiamo a manifestazioni di angoscia che sembrano superare le soglie della realtà.

Chi più, chi meno, tutti vivono il loro piccolo acting out: non mandano il figlio a scuola anche dove le scuole rimangono aperte, non prendono i mezzi pubblici, fanno una scorta esagerata di provviste...

 

C'è però una forma di reazione tutta personale, che va al di là della realtà oggettiva e genera una profonda sofferenza.

 

Non c'è bisogno di somigliare ad Argante, il malato immaginario nell'opera di Moliere, per finire in un tunnel di cui non si vede la fine.

I dubbi, già espressi da autorevoli pareri, generano altri dubbi, che rischiano anche di trovare punti di contatto con la realtà dei fatti. Ma questo non significa che siano reali.

Nella persona tanto spaventata dalla malattia, ma anche a momenti in tutti noi, si delinea uno scenario insopportabile. Alla fantasia di oppone la razionalità, che però non assume mai la forma del pensiero, inteso come possibilità di riflettere sull'esperienza.

 

Cosa succede dentro la mente?

E' come se l'investimento libidico sul corpo, effetto difensivo di un "tradimento" della relazione oggettuale, sperimentasse ancora una volta un deserto affettivo, un'assenza di contenimento.

E' un deserto che genera un'enorme sofferenza, un'assenza che annichilisce.

 

Cosa può fare l'analista di fronte a tanta sofferenza?

Può offrire la relazione analitica come strumento, come palestra diceva Freud, in cui esperire il conflitto e promuovere la possibilità di una trasformazione.

Non è mai un lavoro facile. Non lo è per il paziente e non lo è per l'analista. E' importante sapere che si intraprende un viaggio faticoso, ma è importante anche sapere che è un viaggio possibile ed indispensabile ad uscire da quel deserto affettivo origine di tante paure

Dott.ssa Daniela Arborini Psicologa e Psicoterapeuta

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