Sono la dottoressa Daniela Arborini, laureata in Psicologia clinica e specializzata in psicoterapia ad indirizzo psicoanalitico.
Credo che il benessere psichico sia un diritto di ogni essere vivente. L'ansia può rendere la vita difficile, ma si può combattere.
Dalla depressione, dal mondo terribile in cui questa ci costringe a vivere si può uscire, anche le paure, i pensieri ricorrenti, i terribili attacchi di panico possono essere affrontati e risolti.
L'importante è trovare il giusto percorso per ognuno.
Esercito e ricevo su appuntamento a Ostia, in via dei Fabbri Navali e a Roma (zona Garbatella) o online.
Come per molte altre nevrosi il primo a parlarcene in termini di struttura e dinamiche della personalità fu Freud.
Freud la chiamava Nevrosi Ossessivo-compulsiva, ma al di là della definizione vediamo di cosa si tratta.
Come si manifesta il DOC, quali sono i sintomi?
Come spesso avviene i sintomi sono comportamenti o pensieri facilmente riscontrabili nella vita di ognuno di noi, ma che assumono un valore patologico in relazione all'intensità ed alla frequenza con cui si manifestano.
In particolare il pensiero più frequente è quello relativo al controllo: avrò chiuso il rubinetto del gas? O la porta di casa? O la macchina?
A chi non è capitato di andare nel panico di tornare indietro per verificare di aver inserito l'allarme?
Il comportamento diventa sintomatico quando costringe a controlli successivi e continui che comunque non riescono a tranquillizzare il soggetto. Lo stesso comportamento è compulsivo nei termini in cui la persona non può sottrarvisi, non può fare a meno di ripeterlo.
Attraverso il comportamento di controllo la persona cerca di tenere a bada l'angoscia determinata da un conflitto psichico di cui non ha consapevolezza.
Ci sono poi rituali che nel loro ripetersi assumono il ruolo di formula magica atta a prevenire o a propiziare un risultato futuro. Molti di questi rituali sono rintracciabili nei comportamenti infantili. Ricordate il bisogno di ripetere un racconto o una fiaba con le stesse identiche parole, soprattutto nel punto maggiormente ansiogeno della storia stessa? Il bambino cerca di controllare con i suoi scarsi mezzi l'angoscia generata non dalla fiaba, ma dal conflitto intrapsichico che la fiaba permette di affrontare.
E ricordate i saltelli coi quali si attraversava un pavimento piastrellato nel tentativo di non pestare le righe? O al contrario di doverle pestare ad ogni passo?
Quindi molti sintomi ossessivo compulsivi derivano dai comportamenti infantili, ma assumono una improrogabilità che li rende sintomatici, cioè espressione di un compromesso tra gli impulsi e la realtà.
Non possiamo però non notare la somiglianza di alcuni pensieri con i rituali delle ciciltà antiche, dove il rito era propiziatorio di di un evento futuro dall'esito incerto. Allo stesso modo ci sarà capitato di sentir dire a qualcuno "per fare l'esame indosso sempre questa maglietta che indossavo quando per la prima volta ho preso il massimo dei voti".
Si tratta insomma di legare due eventi che non hanno alcun legame in sè, ma ai quali diamo un significato tutto personale e contenitivo dell'ansia o addirittura dell'angoscia che un evento può determinare.
Anche in questo caso è l'intensità del pensiero o l'inevitabilità del rituale a determinarne il valore sintomatico.
Quello che in ogni caso ne emerge è la visione di un soggetto stretto all'ngolo delle sue paure, che non può sottrarsi a comportamenti o pensieri, con la speranza di tenere a bada l'angoscia.
Secondo Freud il disturbo ossessivo compulsivo era la forma di nevrosi maggiormente adatta ad essere trattata attraverso la psicoanalisi.
Il lavoro psicoanalitico, sganciandosi dal sintomo, va alla base del sistema individuando il conflitto dal quale la persona cerca di difendersi. Questo non vuol dire che il sintomo viene tralasciato, ma che viene considerato la manifestazione di un disagio che ha le sue radici nel profondo.
Come spesso accade non è possibile dare una risposta univoca, perchè è evidente che le reazioni al trattamento sono individuali: può succedere che grazie all'instaurarsi del transfert il sintomo perda di forza e la persona si stenta meglio dopo un tempo relativamente breve, è importante però non mollare proprio in quel momento e andare invece alla ricerca di quel conflitto che trova nel sintomo o nel transfert il suo canale di espressione.
La buona notizia è però che il DOC si può curare, con ottimi risultati, rendendo la persona libera della schiavitù del sintomo!
Se desideri approfondimenti sulla tematica del Disturbo Ossessivo Compulsivo puoi contattarmi presso i miei studi a Roma o a Ostia.
Un attacco di panico è definito come l'improvvisa comparsa di un periodo distinto e breve di intenso disagio, di ansia, o di paura accompagnati da sintomi somatici e/o cognitivi.
Al di là della definizione l’attacco di panico è comunque un’esperienza davvero traumatica che solo chi l’ha provata può capire e a volte descrivere.
E’ un momento di rottura in cui la paura immotivata si associa ad una serie di sintomi somatici, quali la sudorazione, le palpitazioni, l’affanno, formicolii, mal di testa ecc…
L’aspetto devastante dell’attacco di panico è l’imprevedibilità: meglio dire che l’apparente mancanza di motivazione al suo scatenarsi fa si che la persona che ne soffre teme che si possa verificare in un numero sempre maggiore di situazioni, per cui è costretta a limitare sempre più la propria esperienza nel mondo nella speranza di limitarne le manifestazioni.
Il nostro sistema nervoso reagisce ad una situazione di pericolo mettendo in atto una serie di reazioni somatiche atte ad affrontare il pericolo in questione. Durante l’attacco di panico il pericolo non esiste, spesso la persona non è neanche in grado di definire di cosa ha paura, ma tutto il resto, la costellazione di reazioni somatiche che ancestralmente avrebbero preparato il soggetto alla fuga o all’attacco, quelle sono estremamente reali ed invalidanti. Ma perchè la mente di un soggetto normale ha questo corto circuito?
Per quale motivo confonde uno stimolo inoffensivo per pericolo? Perchè l’angoscia che tutto questo genera diventa incontenibile, tanto che spesso le persone in preda ad un attacco di panico sono davvero convinte che stanno per morire?
Sembra che la funzione di contenimento dell’emozione operata dal pensiero venga a mancare. Perchè questo fallimento?
La funzione di contenimento del pensiero viene gradualmente acquisita durante lo sviluppo grazie alla reverie della figura di accudimento principale, cioè quella capacità che ha la mente adulta di accogliere l’angoscia , decodificarla e restituirla al bambino in una forma più accettabile e “digeribile”.
L’attacco di panico è una buco in questa rete di contenimento.
In alcune situazioni la pressione psichica può essere troppo forte, una perdita, un lutto, momenti di trasformazione possono determinare una discontinuità nella percezione di sè che interrompe questa funzione del pensiero.
E’ come se una ferita rimarginata venisse sottoposta ad un pressione tale da riprendere a sanguinare.
Esistono diverse forme di intervento per l’attacco di panico.
Il primo in genere è quello farmacologico: il farmaco contiene la reazione somatica dell’attacco di panico. Questo intervento a volte è indispensabile per avere accesso ad una cura psicologica, ma non è senza conseguenze.
Alcune forme di psicoterapia lavorano sul senso che il soggetto dà al sintomo, cercando di modificare la catena di significato che porta all’attacco.
La psicoterapia ad indirizzo psicoanalitico ha l'obiettivo di andare alla causa del problema, restituendo alla persona un’integrità psicofisica e ricostituendo la continuità del sè.
Attraverso l’analisi dei legami di attaccamento e di come questi si riattualizzano nella vita di chi si rivolge a me, lavoro per ricostruire insieme alla persona la pensabilità del disagio che porta al sintomo, ricostruendo quella rete di contenimento dell’emozione di una mente funzionante.
A volte l’evento viene analizzato in seduta, andando alla ricerca del meccanismo difensivo. Altre volte la pensabilità viene riconquistata agendo al di fuori dell’evento sintomatico.
La terapia psicoanalitica, pur partendo da un forte modello teorico, è sempre un percorso meravigliosamente individuale.
Perchè l'attacco di panico è come una goccia d'olio che cade accidentalmente su una superficie porosa: si assorbe e pian piano si allarga andando a invadere parti sempre più ampie di tessuto.
In principio può sembrarci che l'attacco di panico arriva solo se siamo alla guida, da soli in macchina. Eviteremo quindi di prendere la macchina da soli. Poi però comincerà ad arrivare anche se qualcuno è in macchina con noi, allora abbandoneremo la macchina. Ma un giorno ci capiterà di sentirlo arrivare sull'autobus, allora decideremo di andare a piedi, e così via.
Non è una previsione pessimistica: gli attacchi di panico non se ne andranno da soli e soprattutto non spariranno evitando le situazioni che ci sembrano scatenanti.
Gestire e curare l'attacco di panico è possibile, ma non è mai troppo presto.
Non bisogna permettere a questo odioso sintomo di limitare la nostra vita. Prendersi cura del proprio benessere psicologico è infatti un compito complesso, a volte faticoso, ma anche affascinante. Bisogna invece fare in modo che sia l'attacco di panico ad essere sconfitto dalla nostra risolutezza a lasciarci aiutare.
PER INFORMAZIONI ULTERIORI e PER PRENOTAZIONI ContattaDaniela Arborini, Psicologa e Psicoterapeuta a Roma ed Ostia.
L'ansia è uno dei termini concernenti la psicologia più usati nel mondo occidentale.
Chiunque l’ha sperimentata, ma per qualcuno è una compagna sempre presente che limita azioni, pensieri, sentimenti.
L’ansia è la reazione ad un pericolo reale o fantasticato che include uno stato psichico di allarme e spesso reazioni somatiche quali sudorazione, tachicardia, pallore….e reazioni comportamentali quali fuga, evitamento o preparazione all’attacco.
E’ evidente che esiste un aspetto funzionale dell’ansia, che potremmo chiamare genericamente paura, che prepara ed aiuta l’individuo ad affrontare il pericolo che incontra.
A volte ci sentiamo additati come ansiosi, altre volte siamo noi stessi a definirci ansiosi.
Questo sta a significare che alcuni individui sviluppano una modalità di reazione agli stimoli, come un pattern di risposta automatica che influenza notevolmente il suo benessere, le sue scelte e le sue relazioni.
Quando la preoccupazione per il futuro nostro o delle persone a cui vogliamo bene condiziona il nostro stato d’animo e le nostre scelte, quando le novità sono fonte di malessere, quando viviamo uno stato di allarme per quello che potrebbe succedere è il caso di fermarci e chiederci cosa ci sta dicendo la nostra mente.
L’ansia ha origini antiche.
Il modo in cui percepiamo il mondo e gli altri trae le sue origini dalle prime relazioni oggettuali.
Il modo in cui l’ambiente, quindi tutte le persone più o meno significative del nostro passato, ha risposto alle angosce infantili influenza notevolmente quello che inconsapevolmente ci aspettiamo dal mondo.
C’è poi chiaramente un contributo individuale a questo modo di costruire la nostra realtà, che rende la risposta di ognuno unica e inconfrontabile con l’altro: potremmo sintetizzare dicendo che “ognuno ci mette del suo!”
No, anche in questo caso non è mai troppo tardi, ma anche in questo caso prima si interviene e maggiori sono le probabilità di risolvere il proprio disagio.
Esistono diverse forme di intervento sull’ansia, che vanno dalle tecniche di rilassamento e modalità di rielaborazione dell’esperienza fino ad una percorso che mira alla rielaborazione del significato profondo del sintomo ansioso.
La psicoanalisi identifica l’ansia come l’espressione di un conflitto che va capito, decodificato, rielaborato con l’obiettivo di permettere alla persona di liberarsi di una modalità dannosa di rispondere ad una difficoltà.
Attraverso l’analisi delle modalità di relazione, grazie al contributo dell'interpretazione dei sogni o delle manifestazioni dell'inconscio nella vita quotidiana si può scoprire, contenere e rielaborare il vissuto d’angoscia che si genera in maniera apparentemente immotivata.
E’ quindi un intervento che usa il sintomo ma non è un intervento sintomatico: ha cioè la presunzione di andare alle radici del sistema, alla causa del problema, in modo radicale e definitivo.
Vuoi ricevere più informazioni? Hai bisogno di un consiglio? Contattami, sarò felice di parlare con te, mi trovi sia nel mio studio di Ostia che di Roma.
Viviamo in un epoca che esalta il corpo, lo espone e insieme lo mercifica.
Costruiamo lentamente, nei primi anni di vita, la nostra integrità corporea e le diverse scienze ci indicano la stretta interdipendenza di corpo e mente.
Cosa attenta a questa continuità?
Cosa ci impedisce di percepire la nostra integrità corporea come sicura, forte, efficace?
In questi giorni di grande allarme sociale per il rischio della diffusione del corona virus è come se il corpo sociale stesso stesse vivendo il rischio di vedere fallire la propria integrità.
I mezzi di comunicazione ripetono incessantemente le stesse informazioni, assistiamo alla corsa ad accaparrarsi l'ultima mascherina, lo sguardo riprovevole verso chi starnutisce, persino verso chi ha gli occhi a mandorla.
Se una certe dose di ansia relativa alle possibili evoluzioni della situazione sanitaria è tollerabile, assistiamo a manifestazioni di angoscia che sembrano superare le soglie della realtà.
Chi più, chi meno, tutti vivono il loro piccolo acting out: non mandano il figlio a scuola anche dove le scuole rimangono aperte, non prendono i mezzi pubblici, fanno una scorta esagerata di provviste...
C'è però una forma di reazione tutta personale, che va al di là della realtà oggettiva e genera una profonda sofferenza.
Non c'è bisogno di somigliare ad Argante, il malato immaginario nell'opera di Moliere, per finire in un tunnel di cui non si vede la fine.
I dubbi, già espressi da autorevoli pareri, generano altri dubbi, che rischiano anche di trovare punti di contatto con la realtà dei fatti. Ma questo non significa che siano reali.
Nella persona tanto spaventata dalla malattia, ma anche a momenti in tutti noi, si delinea uno scenario insopportabile. Alla fantasia di oppone la razionalità, che però non assume mai la forma del pensiero, inteso come possibilità di riflettere sull'esperienza.
Cosa succede dentro la mente?
E' come se l'investimento libidico sul corpo, effetto difensivo di un "tradimento" della relazione oggettuale, sperimentasse ancora una volta un deserto affettivo, un'assenza di contenimento.
E' un deserto che genera un'enorme sofferenza, un'assenza che annichilisce.
Cosa può fare l'analista di fronte a tanta sofferenza?
Può offrire la relazione analitica come strumento, come palestra diceva Freud, in cui esperire il conflitto e promuovere la possibilità di una trasformazione.
Non è mai un lavoro facile. Non lo è per il paziente e non lo è per l'analista. E' importante sapere che si intraprende un viaggio faticoso, ma è importante anche sapere che è un viaggio possibile ed indispensabile ad uscire da quel deserto affettivo origine di tante paure
La depressione si inserisce nel quadro dei disturbi dell’umore. E’ però una parola “inflazionata”, per cui sarà capitato a tutti noi di dire almeno una volta “sono depresso”.
Esistono chiaramente, come per tutti i disturbi della sfera psichica, diversi gradi di depressione.
Andiamo da una depressione maggiore ad una depressione reattiva ad un evento reale che ha portato ad una perdita, più o meno significativa. Proprio per questa complessità è importante non fare un’autodiagnosi, ma rivolgersi ad uno specialista.
Come dicevamo chiunque ha sperimentato la sensazione di tristezza, a volte apparentemente immotivata, altre volte persistente, dalla quale non si riesce ad uscire.
A questo si aggiunge lo stigma sociale, perchè si pensa erroneamente che reagire alla depressione, uscire da un vissuto depressivo sia questione di buona volontà. Niente di più sbagliato.
Hai perso interesse per quello che ti succede intorno, senti di essere sempre più lontano dalle persone che ti vogliono bene, vivi sensazione di sconforto, di ineluttabilità, ti sembra che pensare al domani sia solo un’inutile fatica. Questo può significare che la depressione ha già trovato spazio dentro di te e rende difficile, se non impossibile, quella “buona volontà” di cui tutti parlano.
Se abbiamo la fortuna di accorgerci prima che qualcosa non sta funzionando, che il nostro modo di affrontare (o non affrontare) una situazione ci porta ad affondare sempre più, se sentiamo che le persone e le cose della nostra vita stanno perdendo importanza, se ci sembra che il futuro può portarci ulteriori fallimenti, forse abbiamo la fortuna di essercene resi conto in tempo per evitare che questo vissuto si trasformi in una vera e propria depressione.
Bisogna dire che il quadro sintomatologico può essere molto diverso da individuo ad individuo ed è in genere diverso nelle donne rispetto agli uomini, negli adulti rispetto agli adolescenti ecc…
Possiamo comunque, tenendo conto di questa importante premessa, individuare alcuni sintomi che sono frequentemente associati alla depressione:
Per prima cosa posso aiutarti a capire quello che ti succede, a dare un senso ai meccanismi inconsci che alimentano il senso di fallimento, analizzare il contesto di relazioni e lo stile di vita.
La depressione porta all’isolamento e a perdere fiducia in se stessi e nell’altro.
Attraverso la relazione psicoterapeutica, attraverso l’ascolto attento e non giudicante si costruisce un clima di fiducia che permette di guardare i propri pensieri e le proprie emozioni dando loro un significato diverso e più profondo, consapevole. vengono analizzate insieme le ripetizioni e le riattualizzazioni nel trasfert delle dinamiche fallimentari che portano alla depressione per capirle e modificarle dall’interno.
Certo non è un processo breve, anche se molte sono le variabili che possono influenzare la durata e la riuscita del trattamento.
Per prima cosa sicuramente la precocità dell’intervento: non aspettare, se hai dei dubbi chiedi un consulto e decideremo insieme il percorse più idoneo alla tua situazione.
Ognuno ha il suo passo nel percorso analitico e questo passo può avere velocità diverse nei diversi momenti del trattamento.
Non tutti, per indole o per esperienze passate, hanno la stessa capacità di fidarsi e affidarsi. La costruzione di una relazione di fiducia è una parte importante del processo terapeutico e particolarmente difficile per chi soffre di depressione.
A volte sono indispensabili, alle volte rappresentano una fase necessaria da attraversare, altre volte non sono necessari.
In caso di necessità lavoro in sinergia con lo psichiatra o il neurologo che prescrive la terapia farmacologica.
E’ importante sapere che gli effetti della terapia farmacologica sono positivamente influenzati dalla psicoterapia.
C'è un clima sospeso.
Da quando il governo ha chiuso le scuole su tutto il territorio nazionale lo sentiamo tutti di più.
Dovunque si sprecano commenti. Sui svariati gruppi social soprattutto.
Certo l'angoscia si taglia col coltello.
La mente si rifugia nella ricerca del colpevole.
All'inizio fu il paziente 0. Chi è, da dove è venuto, chi avrebbe potuto fermarlo, quanto è stato superficiale?
Adesso abbiamo rinunciato a trovare l'untore, ma si sprecano commenti contro le precauzioni prese, o non prese, o prese in ritardo...
La mente vaga, salta da una parte all'altra cercando di dare un senso a quello che sta succedendo.
C'è chi continua ad asserire che si sta inutilmente gonfiando un banale virus, poco più di una banale influenza.
Oggi ho sentito anche un'ipotesi di congiura economica: una specie di necessità dell'economia globale di riportare il tenore della vita al di sotto di alcuni valori.
Qualcuno con lo stesso spirito parla di una specie di programmazione naturale, un contenimento della popolazione mondiale, per qualcuno è segno del divino...
Non è mia intenzione entrare in queste dispute.
Mi fermo invece a guardare il funzionamento della mente.
La mente non ce la fa a rimanere nell'incertezza: l'incertezza della causa, l'incertezza del futuro, l'incertezza del come è potuto succedere.
Allora usa quel meccanismo arcaico, che sempre riemerge nei momenti di forte regressione, che è la proiezione e l'identificazione proiettiva.
La mente ne ha bisogno per liberarsi di emozioni, meglio dire di sensazioni, che non trovano un nome.
Il problema più grosso non è che questo meccanismo ti svuota, senza la possibilità di riappropriarsi dei propri pensieri.
Anche.
Ma ancor di più il problema è che la società si sgretola: guardiamo all'altro come la causa della nostra angoscia, ci prondiamo nell'immaginare malevole intenzioni, ci immaginiamo che ognuno per salvarsi sarà costretto a passare sul cadavere dell'altro.
Perdiamo di vista che invece, come spesso nelle crisi di qualsiasi genere, è l'unione che ci salverà.
Non l'unione fisica, certo.
Ci potrà aiutare sapere che quello che facciamo o non facciamo per ridurre il rischio non è fatto solo per il nostro rischio, ma anche e soprattutto per il rischio di chi è più debole di noi, debole di salute, debole economiamente.
Insomma anche in questo non siamo soli, nel bene e nel male
La solitudine è un vissuto piuttosto comune. Tutti, in un modo o nell'altro, l'abbiamo provata, o cercata, desiderata.
La lingua inglese distingue tra la solitudine come scelta (solitude) e la solitudine come mancanza (loneliness). Il valore che viene dato alla solitudine è anche frutto dei tempi: in questa era molto orientata all'individualismo si parla molto della capacità di star bene da soli come indice di benessere. La pensava un po' così anche Leopardi, che riteneva che la solitudine acuisse il proprio stato d'animo: stavi bene da solo se nel complesso stavi bene con gli altri, mentre potevi soffrirne anche molto se vivevi uno stato di malessere interiore.
La solitudine è una dimensione molto soggettiva e se a volte la desideriamo come via di fuga da una situazione o da una relazione "invadente", in diverse circostanze può essere fonte, o campo, di profonda sofferenza.
L'assenza dell'altro ci costringe ad entrare in contatto con il vuoto che il fallimento della relazione oggettuale genera. Fantasmi anche molto antichi vengono o tornano a farci visita. Timore, ansia, o, inutile negarlo, angoscia riempiono gli spazi lasciati liberi dall'assenza. Assenza di relazione, assenza di contenimento, assenza di contatto....
Ricordiamoci che i fantasmi sono sempre più spaventosi nelle nostre fantasie che nella realtà. Fermiamoci per poter riconoscere che sono parte di noi, non elementi dotati di vita propria.
Sul momento può essere utile rimanere saldamenti legati al presente, evitando che il futuro ci terrorizzi con la sua indefinitezza e il passato ci ammorbi con la sua ineluttabilità. Non è la soluzione, ma è un modo per raccogliere le forze e andare incontro alle nostre paure, cercando di sciogliere quel groviglio di emozioni e di spostamento che ci rendono tanto difficile un pensiero.